Il foro di Carlo che divenne di Dante

Angelo ForgioneUna piazza di Napoli tra le più belle è dedicata a Dante Alighieri, padre della lingua italiana, che all’ombra del Vesuvio si sarebbe recato in due occasioni, alla fine del Duecento. È da ritenersi fondata la tesi avanzata da accreditati studiosi secondo cui sarebbe stato inviato come ambasciatore da Carlo II d’Angiò, che lo ricevette al Maschio Angioino. Il poeta fiorentino ne approfittò per visitare le biblioteche partenopee e le principali chiese, tra cui Sant’Eligio, San Lorenzo Maggiore e San Domenico Maggiore, dove si fermò a dissertare di storia e filosofia con i frati.

Un statua lo ritrae oggi nella piazza immediatamente fuori le mura della Neapolis greco-romana. Un tributo a colui che nella Divina Commedia veniva guidato dal “napoletano” Virgilio, ritrovandosi, nel mezzo del cammin di vita, in una selva oscura, forse quella attorno al Lago d’Averno, ipotetica porta d’accesso all’Inferno.
Ma il vero motivo di quella bella statua sta nella cancellazione dell’identità napoletana messa in atto immediatamente dopo l’unità d’Italia, ed è presto chiarito.

In principio, il luogo fu “il Mercatello“, area di commercio distinta nel nome dalla più grande piazza Mercato.
A metà Settecento fu realizzata l’esedra del Foro Carolino, firmato da Luigi Vanvitelli, per celebrare Carlo di Borbone, con le statue rappresentanti le virtù del Re e con una monumento equestre dello stesso da realizzarsi nella nicchia centrale (oggi ingresso del Convitto Vittorio Emanuele), solo abbozzata e distrutta dai rivoltosi nel 1799.

Per sovrapporre un significato unitarista a una piazza borbonica, fatto il Regno d’Italia, si mise in moto la Massoneria, potere affermato dal Risorgimento. La figura di Dante era stata riportata in auge dalla cultura risorgimentale, e la fortuna del poeta diventò notevolissima per la sempre più larga identificazione in lui in quanto simbolo dell’unità nazionale. Nel 1862 fu il patriota napoletano Luigi Settembrini, maestro della Loggia massonica Libbia d’oro, a costituire la “Società Dantesca Promotrice di un Monumento a Dante in Napoli”, in vista dei seicento anni dalla nascita del Sommo Poeta, che sarebbero caduti nel 1865. Gli scultori Tito Angelini e Tommaso Solari si offrirono per progettare e realizzare gratuitamente l’esecuzione del monumento, mentre la società dantesca si sarebbe fatta carico delle sole spese dei materiali.
Nel 1863 fu lanciata una “Sottoscrizione per un Monumento al F.. Dante Allighieri in Napoli” per iniziativa del giovane intellettuale napoletano Vittorio Imbriani, segretario della stessa Libbia d’oro. Nell’appello rivolto alle altre logge massoniche italiane, Imbriani affermò il chiaro intento simbolico:

“[…] Come i Longobardi infiggevano una lancia nel suolo conquistato, e noi così vorremmo innalzare un Monumento a Dante, quasi segno della presa di possesso di queste provincie da parte dell’Idea unitaria […].

Dante, padre della lingua nazionale, doveva dunque significare uno dei simboli della conquista del da poco tramontato Regno delle Due Sicilie. La realizzazione dell’opera fu piuttosto travagliata per mancanza di fondi e per una consistente lievitazione dei costi, e vide compimento solo il 10 maggio del 1871, tre mesi dopo la proclamazione di Roma capitale, da poco sottratta al Papa. Chiusura dei lavori grazie all’allora sindaco di Napoli, il patriota Paolo Emilio Imbriani, padre di Vittorio e amico di Settembrini, che fece accollare tutte le spese al Municipio. La statua di Dante, collocata nei pressi della nicchia dell’esedra (oggi avanzata a fronte strada), fu inaugurata il 14 luglio ’71, pur rimandando la realizzazione dell’iscrizione da apporvi.

E dalla piazza che la ospitò partiva via Roma, odonimo dato alla storica via Toledo dallo stesso sindaco Paolo Emilio Imbriani, artefice di una scelta assai impopolare sancita otto mesi prima per celebrare la Breccia di Porta Pia. Dopo 334 anni, anche la strada aperta dal viceré don Pedro di Toledo era stata privata della sua identità. Era divampato un accesissimo dibattito, con gran parte degli intellettuali locali assolutamente contrari al cambio di odonimo, imposto con la forza, addirittura facendo piantonare le nuove targhe dalle guardie armate, ed era persino nata una filastrocca contro il sindaco:

“Un detto antico, e proverbio si noma, dice: tutte le vie menano a Roma. Imbriani, la tua molto diversa, non mena a Roma ma mena ad Aversa”.

Ad Aversa si trovava lo storico primo manicomio d’Italia, e dovette considerare matto l’Imbriani pure il suo successore, Luigi de Monte, che non volle concedere ulteriori finanziamenti per completare il monumento a Dante. Il progetto dell’iscrizione venne ripreso soltanto negli anni Trenta del 900, e il 26 giugno del 1932, con una solenne cerimonia, venne inaugurata l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri 1862-71”.

I napoletani continuavano a chiamare “Toledo” la via Roma. Fecero giusto in tempo quelli del dopoguerra ad essere educati a nominarla con l’odonimo capitolino, ma nel 1980 la commissione toponomastica dell’amministrazione Valenzi decise opportunamente di restituire alla storica strada il suo antico nome e la sua identità. Dopo 110 anni Toledo tornò al suo odonimo. Non il Foro Carolino, la piazza assegnata a Dante per “piantare una lancia nel suolo conquistato”.

Le radici napoletane di Giulietta e Romeo

Angelo Forgione — Qualcuno pur crede che Romeo e Giulietta, i due amanti simbolo dell’amore eterno, siano davvero esistiti nella bella Verona di un tempo, la stessa città che oggi, ogni giorno, accoglie migliaia di turisti assiepati nella strettoia di via Cappello che conduce a casa Capelletti, una dimora di pura fantasia in cui è fissato il dimicilio scaligero dell’archetipo universale dell’amore trascendentale nato altrove. Il suo parto, infatti, avvenne a Napoli, dalla penna del prosatore salernitano Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano, nato probabilmente a Salerno nel 1410 e cresciuto letterariamente proprio all’ombra del Vesuvio, presso la splendente corte aragonese, dove fu stimolato da una vivace e raffinata cultura umanistica, frequentando uomini di spicco come Giovanni Pontano e Antonio Beccadelli.

Il Guardati fu autore, a metà del suo secolo, di una raccolta di novelle, poi pubblicata a Napoli nel 1476, un anno dopo la sua morte, con titolo Il Novellino. Tra i cinquanta racconti, scritti in lingua Volgare napoletana con influenze toscane, il trentatreesimo era la tragica storia d’amore di Giannozza e Mariotto, ispirata ai classici della letteratura greca.

La vicenda era ambientata nella Siena quattrocentesca, dacché da Siena proveniva l’uomo illustre cui era dedicata la novella: “a lo illustrissimo signor Duca d’Amalfi”. I due protagonisti, gli amanti Giannozza Saraceni e Mariotto Mignanelli, travolti dal fuoco della passione, si sposano in gran segreto. Poco dopo, Mariotto ha uno forte litigio in strada con un concittadino e finisce per ucciderlo. A causa di tale delitto viene condannato a morte e, per salvare la pelle, decide di fuggire ad Alessandria d’Egitto, presso uno zio. Giannozza non riesce a stargli lontano ed esegue un piano per raggiungerlo: si fa credere morta e, travestendosi da frate, grazie ad una falsa identità, si mette in viaggio per la città egiziana. Mariotto, informato dal fratello della morte della sua amata, decide di far ritorno a Siena. Nel frattempo, Giannozza giunge ad Alessandria d’Egitto e viene a conoscenza che Mariotto è rientrato in Italia. La donna decide dunque di rientrare anch’ella a Siena, laddove, una volta arrivata, apprende che il suo amato è stato scoperto dalle autorità e da poco giustiziato per l’omicidio commesso. Sconvolta dal dolore, la neovedova decide di chiudersi in convento, ma non sopravvive a lungo al suo profondo dolore e muore di crepacuore.

Mariotto senese, innamorato de Ganozza, como ad omicida se fugge in Alessandria [d’Egitto]; Ganozza se fenge morta, e, da sepultura tolta, va a trovare l’amante; dal quale sentita la soa morte, per morire anco lui, retorna a Siena, e, cognosciuto, è preso, e tagliatoli la testa; la donna nol trova in Alessandria, retorna a Siena, e trova l’amante decollato, e lei sopra ‘l suo corpo per dolore se more.

Tragedia ripresa sessant’anni più tardi, tra il 1512 e il 1524, dal vicentino Luigi Da Porto per una sua personale stesura con modifica di vicende e di nomi. Nella novella Historia nuovamente ritrovata di due nobili amanti, il prosatore veneto cambiò i nomi dei protagonisti. Non più Giannozza Saraceni e Mariotto Mignanelli ma Giulietta Capelletti e Romeo Montecchi. Diversa anche l’ambientazione, non più a Siena ma a Verona, città peraltro inquadrata nello scenario, descritto da Dante nella Divina Commedia, delle durissime faide familiari tra Guelfi o Ghibellini. Giulietta, figlia unica della ricca famiglia Capelletti, s’innamora perdutamente di Romeo Montecchi, rampollo della famiglia rivale. La ragazza è però data in sposa a Paride, un nobile altolocato, ma si rifiuta e, dopo alcune peripezie per affermare il suo amore per Romeo, pensando che egli sia morto, finisce per suicidarsi.

Novella in versione “scaligera” rielaborata poi dal tortonese Matteo Bandello, amico di Da Porto, e questa tradotta in inglese da Arthur Brooke nel 1562 (The tragical Historye of Romeus and Juliet). Versione britannica letta da William Shakespeare, che la drammatizzò in teatro alla fine del Cinquecento, affermando il mito di Giulietta e Romeo, le cui radici affondavano nella novella scritta un secolo e mezzo prima da Masuccio Salernitano alla corte di Napoli.

Luigi Da Porto aveva fatto inconsapevolmente uno sgarbo a Siena e un regalo a Verona, dove, negli anni Trenta del Novecento, si sarebbe data vita alle suggestioni shakespeariane inventando la casa di Giulietta, una finta dimora storica ricavata da una banale palazzina.

La scelta ricadde sul luogo dove risiedeva la famiglia Dal Cappello, antichi mercanti di spezie la cui proprietà era testimoniato dallo stemma — un cappello da Pellegrino — scolpito in rilievo sulla chiave di volta dell’arco interno del cortile dell’edificio. Qui fu portata una lastra gotica in pietra recuperata dal museo di Castelvecchio per creare un finto balconcino antico — la parola “balcone” non compare mai nelle prime scritture del dramma — al posto di una banale balconata con ringhiera. Un palazzo risistemato con elementi dal sapore medievale, anche all’interno. Un’operazione ideata da un lungimirante direttore museale e avallata dalla soprintendenza locale che, dal nulla, diede il via a una florida industria del turismo. Contemporaneamente fu creata ad arte anche la tomba della mai esistita Giulietta, inserita negli itinerari storici di Verona, utilizzando un sarcofago in marmo rosso, forse di età romana, posizionato nell’ex convento di San Francesco del Corso, appena fuori le mura cittadine, dentro le quali, il 16 settembre, si festeggia persino la fantasiosa data di nascita della ragazza suicida. Ogni giorno, invece, il cortile della casa di Giulietta, luogo divenuto il secondo sito più visitato di Verona dopo l’Arena (anche se il più deludente d’Italia, secondo alcuni dati). accoglie e raccoglie i sogni “ex-voto” degli innamorati sulle pareti dell’ingresso, mentre la statua di Giulietta, opera di Nereo Costantino del 1972, è venerata e toccata sui seni per propiziarsi l’amore eterno e indivisibile drammatizzato da William Shakespeare e narrato, per primo, da Tommaso Guardati.

.

L’anticristo della pizza

Angelo Forgione E così, nel cuore di Napoli invaso dai turisti, è caduto sulla pizza il muro dell’integralismo napoletano. La pizza con l’ananas non è più un tabù. L’ha demolito Gino Sorbillo, quantunque non sia stato il primo, tra i più noti pizzaiuoli, a usare il particolare frutto tropicale. È semmai il primo a far parlare di sé per il sacrilegio dell’ananas (a fette) sulla pizza napoletana.

Non è sicuramente un sacrilegio impiegare la frutta sulla pizza. Chi sostiene che lo sia non sa che i napoletani, nel primissimo Ottocento, hanno rivoluzionato il disco di pasta condito mettendovi sopra proprio un frutto esotico: il pomodoro. Sì, il pomodoro è esattamente un frutto sotto il profilo botanico, anche se sotto il profilo gastronomico viene comunemente ed erroneamente considerato un ortaggio.

Sia il pomodoro che l’ananas stanno bene con il salato perché frutti acidi e dolci, anche se il primo meno acido e dolce del secondo, e non sempre, dacché il pomodorino giallo è decisamente più dolciastro del rosso, quindi non troppo distante dall’ananas.
Il vero problema sta dunque nell’addizione dell’ananas al pomodoro, unione che crea eccessivo scompenso di acidità, tradotto in debolezza del gusto e scarsa digeribilità. Pensò male di mettere insieme i due frutti l’inventore della “hawaiana”, il greco Sam Panopoulos, in Canada, dopo aver assaggiato varie pizze a Napoli.

Franco Pepe, prima di Gino Sorbillo, ha messo nel menu del suo Pepe in grani di Caiazzo la Ananascosta, un cono con ananas avvolto nel prosciutto crudo, fonduta di Grana Padano e spruzzata di polvere di liquirizia.
Francesco Martucci, a I Masanielli di Caserta, propone la Annurca, con purea di mela annurca in infusione di vaniglia, guanciale croccante di suino grigio ardesia, fior di latte e, all’uscita, conciato romano.

Questi e altri noti pizzajuoli che hanno usato ananas, mele, albicocche o altri frutti acidi e semi-acidi per le loro proposte innovative hanno evidentemente evitato di addizionarli al pomodoro. E hanno pure ricercato un equilibrio tra il dolce e il salato, come avviene con prosciutto e melone, formaggio con le pere e altri abbinamenti che mangiano serenamente, finendo per abbinare la frutta a ingredienti salini e sapidi, strada percorsa anche da Gino Sorbillo, che ha voluto rumoreggiare più che innovare, sapendo che nel cuore di Napoli sarebbero arrivati più giornalisti che clienti a chiedere della sua nuova pizza. Renderebbe anche culturale l’operazione se alzasse il livello del dibattito spiegando che non è l’ananas sulla pizza ma l’ananas col pomodoro il vero sacrilegio.

Campania Felix a tavola

Angelo Forgione — La Cucina italiana è la migliore al mondo insieme a quella giapponese. E in testa al Globo svetta la cucina regionale della Campania, davanti a quella dell’Emilia Romagna.
Parola degli awards 2023/24 di TasteAtlas, l’autorevole Atlante del Gusto dedicato alla catalogazione e alla promozione dei prodotti locali, delle ricette tradizionali e dei ristoranti tipici di tutti i continenti.
Italia e Giappone hanno fatto registrare lo stesso punteggio medio, davanti alla Grecia, ma anche quest’anno lo Stivale ha conquistato il primo posto grazie alla valutazione più alta del suo piatto più votato: la pizza!
Ma la Campania non è solo la regione del piatto più diffuso nel mondo, e conquista la corona mondiale battendo la fortissima concorrenza delle altre regioni d’Italia, senza dubbio la nazione con più varietà sul pianeta Terra.

Il vino di Ferdinando di Borbone

Angelo Forgione Prosegue il rilancio del Pallagrello, il vino tanto amato da Re Ferdinando di Borbone, scomparso gradualmente nel Novecento per lo spopolamento delle terre casertane e per l’attacco parrassitario ma riscoperto con buon successo dagli anni Novanta. Ora, all’etichetta “OroRe Bianco” di Tenuta Fontana, si affianca la “OroRe Nero“, il Pallagrello Nero IGT della Vigna di San Silvestro, sulle colline casertane, appartenente alla Reggia di Caserta.

Al tempo di Ferdinando, questi vini erano detti “Pallarelli“, nome derivante dalla sfericità degli acini d’uva “Pallarella”, da cui erano ottenuti, e la denominazione originaria era “Piedimonte“, traendo il nome dalla località pedemontana del Matese in cui originavano, nella provincia di Terra di Lavoro, che nel Dizionario geografico portatile, una pubblicazione veneta del 1757, era elogiata esattamente per il suo superior vino:

“Piedemonte, […] I vini di questa contrada sono eccellenti, così bianchi, come rossi, e sono de’ migliori del Regno così per la loro qualità, e natura, come per la grata sensazione, che risvegliano nel palato. Vanno sotto il nome di Pallarelli, e sono stimatissimi ne’ pranzi. […]”

Il Re li aveva selezionati con fierezza, facendoli servire alla tavola reale e a quelle nobiliari insieme ai già rinomati francesi, e donandone bottiglie ai diplomatici e ai plenipotenziari stranieri. Nel 1775, fece addirittura apporre presso una prosperosa vigna di un’epigrafe recante un bando emesso dal tribunale di Napoli per impedire ai non autorizzati di attraversarla e sottrarre la preziosa uva Pallarella. L’epigrafe è ancora lì, in località Monticello, sulla via per il Matese (foto), a rinfrescare la memoria su quella che fu la gran tutela della Pallarella da parte di Re Ferdinando, attentissimo alle innovazioni in ambito tecnico-agronomico e attore protagonista di una grande rivoluzione agricola operata nel secondo Settecento, quando i vini campani erano considerati i migliori d’Italia, il Lacryma Christi godeva di gran fama e il Barolo delle Langhe neanche esisteva. Il pregiato piemontese sarebbe nato nel primo Ottocento, e lo avrebbe portato al successo Camillo Benso di Cavour, producendolo nel suo castello di Grinzane, paese di cui sarebbe stato sindaco dal 1832 al 1849, prima di andare a Torino e diventare ministro dell’agricoltura del Regno di Sardegna e poi primo ministro.

Oggi tocca alla Campania rincorrere, ma la riscoperta dei vini “Pallarelli” è un segnale di vivacità e di crescita dell’offerta, anche se i meritori sforzi non bastano per raggiungere le smisurate fortune internazionali del Prosecco veneto, il vino italiano più bevuto nel mondo, frutto di una monocoltura invasiva nei territori di origine, e nemmeno l’eccezionale notorietà mondiale del pregiato Barolo piemontese. Tocca al Taurasi DOCG irpino, tra i campani quello che invecchia più a lungo e meglio, fare da apripista alla rincorsa della Campania, la culla dei vini italiani, almeno alle non lontane vette qualitative. Poi si tratterà di fare buona comunicazione, perché è inaccettabile che, nonostante i sommelier italiani siano consapevoli dell’ottima qualità dei vini campani e della loro crescita qualitativa negli ultimi dieci anni, un consumatore italiano su due non li conosce.


La storia del vino, dai Greci a oggi, la leggete su Napoli svelata (Angelo Forgione, Magenes, 2022).

Promozione Natale 2023

Natale! È tempo di regali… e di promozione dei miei lavori, da mettere sotto l’albero con un bel po’ di risparmio e con una mia dedica personalizzata. C’è tanta storia e cultura di Napoli, del Sud e d’Italia da conoscere, da regalare e da regalarsi.

2 copie a scelta, anche dello stesso titolo: € 21 (+ spese spedizione). Ogni copia aggiuntiva: € 10,50.


Info e ordini: staff_angelo_forgione@yahoo.com

Un busto di Dracula inaugurato a Napoli

Angelo Forgione Dracula è davvero sepolto a Napoli? Una suggestiva ipotesi di cui si parla già da qualche anno, sulla scorta di una particolare ricostruzione storica partita dalla Basilicata e in cerca di difficili conferme. Da oggi, la vicenda si arricchisce di un nuovo tassello: un busto celebrativo di Vlad III, principe di Valacchia, al secolo Dracula, nel presunto luogo della sepoltura, ovvero il chiostro minore del complesso monumentale di Santa Maria la Nova. Un busto in bronzo realizzato dallo scultore George Dumitru e donato dalla Societa Culturale Storica “Mihai Viteazul” di Plojesti con il supporto del governo rumeno attraverso il Dipartimento per i Rumeni nel mondo, inaugurato sabato scorso durante un’intensa giornata di approfondimenti su una ricostruzione partita dal ritrovamento nella libreria della famiglia Glinni di un testo manoscritto del 1600. Presenti i rappresentanti della stessa famiglia, quelli della Società “Mihai Viteazu”, di “Palazzo Italia Bucarest”, dell’Asociatia Lucani nei Balcani, docenti universitari, dottorandi e studenti, per proseguire nel percorso di riscoperta e valorizzazione sulle orme di Dracula e della sua dimensione europea. La giornata, animata anche dalla performance attoriale di Errico Liguori nei panni storici del principe Vlad, si è conclusa con una cena all’aperto nel chiostro in cui la chef lucana Enza Barbaro, presidente Associazione Italiana Cuochi, ha preparato tra l’altro le tradizionali Minestra maritata e Pastiera, con radici nel Cinquecento napoletano.

Questa storia, ritenuta valida da serissimi studiosi dell’Università di Tallin in Estonia, non incontra invece il favore del mondo accademico italiano. Riassumendola, si finisce per arrivare alla prestigiosa Corte aragonese di Napoli. Si apprende che Dracula ebbe a trascorrere dodici anni alla Corte del Re d’Ungheria Mattia Corvino, perché marito della sorella del Sovrano, il quale a sua volta sposò nel 1475 la figlia del Re di Napoli Beatrice D’Aragona, il cui segretario era Alfonso Ferrillo, duca di Acerenza. Dracula ebbe contatti con la prestigiosa Corte Aragonese di Napoli nel 1475, anno del matrimonio tra Mattia e Beatrice, concordato nell’ottica della difesa dei due regni dall’Impero ottomano, in fase di forte espansione.

Dracula sparì per sempre nel 1476, in battaglia contro gli Ottomani, è il suo corpo non fu mai ritrovato. E qui il pool di studiosi avanza l’esistenza di una figlia di Dracula, la principessa Maria Balsha, nipote di Mattia Corvino e di Beatrice d’Aragona, che, rimasta orfana, sarebbe stata condotta in anonimato a Napoli all’età di circa 6 anni, intorno al 1480, per essere posta sotto la tutela di Isabella  Del  Balzo, moglie di Re Ferrante d’Aragona. Poi avrebbe sposato Alfonso Ferrillo, duca di Acerenza.

I sostenitori della tesi filonapoletana suppongono che il principe Vlad non sarebbe morto in battaglia, ma sarebbe stato fatto prigioniero dagli Ottomani e in seguito riscattato dalla figlia a Napoli, che lo avrebbe fatto tumulare nel sepolcro del suocero, Matteo Ferrillo, realizzato nel chiostro minore di Santa Maria la Nova. Qui, a testimoniare la presenza di Dracula, vi sarebbe il drago scolpito sulla lapide marmorea, che richiamerebbe al patto militare di mutuo soccorso tra il Re d’Ungheria e gli Aragona, sancito in matrimonio da una comune appartenenza all’ordine del Dragone.

Nei confronti di questa tesi sono stati sollevati molti dubbi, a partire dall’assenza di tracce di una figlia di Dracula e dal significato del drago rappresentato sul sepolcro, che richiamerebbe invece lo stemma araldico della famiglia di Matteo Ferrillo. La leggenda convenzionale, fino a oggi, vorrebbe Vlad sepolto in un monastero di Snagov, in Romania, dove alcuni scavi archeologici effettuati nel 1933 portarono al rinvenimento di una cripta poi identificata come la tomba di Dracula, ma l’azione delle associazioni rumene, con il supporto del loro governo, intervenute a Napoli con un dono alla città, mette certamente in dubbio la narrazione classica.

A rendere tutto ancor più curioso sono le vicende di Bram Stoker, scrittore irlandese di Dracula, romanzo del Principe in versione vampiro per antonomasia, che passò per Napoli nel 1876, quando altri scrittori erano già stati influenzati dalla città. Basti ricordare Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley, nel quale il personaggio mostruoso viene fatto nascere alla Riviera di Chiaia. Del resto, in uno dei più famosi romanzi sul genere “vampiresco” che precedettero Dracula, ovvero Varney il vampiro del 1847, il vampiro protagonista muore gettandosi nel Vesuvio.

Alle origini oscure della “carbonara”, quasi-romana con radice napoletana (?)

Angelo ForgioneGuanciale, uova, Pecorino e pepe. Sono gli unici ingredienti ammessi dalla ricetta canonica e definitiva della carbonara, tipico piatto italiano nel mondo, che non è sempre stato preparato così. Le sue origini sono assolutamente incerte e totalmente irrintracciabili, e vi ruotano intorno diverse ipotesi e tradizioni.

L’epifania del nome avviene nel 1949 nel film Yvonne la Nuit, in cui Totò interpreta il suo primo ruolo drammatico. Nel corso della pellicola, in una trattoria di Trastevere, un cameriere comanda «coda alla vaccinara per due e spaghetti alla carbonara per tre».
L’epifania della ricetta, invece, avviene nel 1952, non in Italia ma negli Stati Uniti, sulla guida illustrata dei ristoranti di un distretto di Chicago scritta da Patricia Brontè dal titolo Vittles and vice: An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side” Il libro descrive diversi locali tra i quali anche il ristorante “Armando’s” in cui si serve la carbonara. I proprietari, Pietro Lencioni e Armando Lorenzini, sono di origine italiana e dettano la ricetta lasciando anche qualche termine italiano. Gli ingredienti sono quelli che domineranno la preparazione per diversi anni: taglierini all’uovo, uova, pancetta e Parmigiano.

La prima ricetta pubblicata in Italia risale all’agosto del 1954, sulla rivista La Cucina italiana. Tra gli ingredienti sono elencati la pancetta, il Gruviera e l’aglio, oltre alle solite uova e al pepe, e si indica di cuocere gli spaghetti e poi di ripassare tutto in padella fino a che “le uova si saranno un poco rapprese”.

Un anno dopo, la carbonara entra per la prima volta in un ricettario vero e proprio, La signora in cucina di Felix Dessì, e in una versione più simile a quella odierna, con la presenza di uova, pepe, Parmigiano (“ma se si preferisce il piccante, un buon pecorino lo può sostituire”) e pancetta.

Pecorino e Gruviera sono licenze rispetto al Parmigiano, e per molto tempo si lascerà la libertà di scegliere tra pancetta, prosciutto o coppa, mica guanciale, che entrerà tra gli ingredienti solo nel 1960, in una ricetta di Luigi Carnacina, che aggiungerà la panna liquida per rendere più cremosa e avvolgente la preparazione.
Altri ingredienti trovano spazio nelle diverse ricette, come vino, cipolla, prezzemolo, peperone e peperoncino. Insomma, le uniche certezze sono le uova e il pepe.

La definizione della ricetta contemporanea, ormai classica, anche se classica non è mai stata, si concretizza solo negli anni ‘90, quando nessuno la considera una ricetta romana. Livio Jannattoni, un’autorità in materia culinaria, nel suo ricettario La cucina romana e del Lazio del 1991, propone un capitolo di piatti adottati dalla cucina romana il cui titolo non lascia spazio ai fraintendimenti: Spaghetti alla carbonara e altre pastasciutte quasi-romane. Vi inserisce i piatti che “hanno quasi maturato un diritto provvisorio di cittadinanza romano-laziale”.

Acquisito lentamente alla cucina romana, il piatto sostituisce il Parmigiano con il locale Pecorino. Velocemente, guadagna un posto tra i più tipici d’Italia senza avere origini certe, e diviene nel tempo oggetto di discussione sulla sua incertissima genesi. Oggi, la tradizione popolare attribuisce la ricetta alla presenza dei soldati “alleati” angloamericani in Italia, a Roma o forse a Napoli, durante gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale, con le loro “razioni k” fatte di uovo liofilizzato e bacon, sposate alla pasta italiana e al formaggio.

Cosa sia successo prima della comparsa del nome del piatto e poi della sua ricetta è un mistero.
Certamente la carbonara ha come suo antesignano un piatto descritto nel trattato ottocentesco di cucina napoletana Il principe dei cuochi di Francesco Palma. La ricetta, pubblicata nel 1881, è quella dei Maccheroni con cacio ed uova, che indica il condimento della pasta con un mix di uova, formaggio Parmigiano (come da prime ricette del dopoguerra), strutto, sale e pepe, da rapprendere sul fornello con un po’ d’acqua di cottura. Manca il guanciale, o comunque la pancetta delle preparazioni spuntate a metà Novecento, ingrediente suino non tipicamente napoletano ma piuttosto dell’area appenninica abruzzese. Non manca però il grasso animale a dare sapore, lo strutto, che oggi non si usa più ed è surrogato da quello che si ottiene per colatura a caldo del guanciale.

Che sia stato proprio un’aggiunta abruzzese, o comunque appenninica, a completare la ricetta sul retaggio della gricia (guanciale, strutto, formaggio Pecorino amatriciano e pepe)? Non è da escludere, visto che il piatto diventa romano come l’Amatriciana, nata sui monti abruzzesi della Laga aggiungendo alla stessa gricia il pomodoro e la pasta ricevuta da Napoli, del cui regno facevano parte gli amatriciani in tempi preunitari. Questi (abruzzesi fino al 1927, per poi essere assegnati alla nascente provincia laziale di Rieti) si stabilirono a Roma nel secondo Ottocento per vendere i prodotti della loro terra colpita dalla crisi della pastorizia.

Dunque, non è poi così peregrino ipotizzare che la carbonara possa essere nata da una traiettoria culinaria che va da Napoli a Roma, con l’appennino laziale-abruzzese a fare da sponda. Evoluta fino alla versione contemporanea, quella con uova, pepe, Pecorino e guanciale che a cambiarla si commettere sacrilegio. Neanche fosse una ricetta plurisecolare.

See Naples and then die


Angelo ForgioneNapulitanamente è un magazine cartaceo e online che si occupa della divulgazione della cultura napoletana e del patrimonio partenopeo all’estero, spaziando dall’intero Sud Italia a tutta l’area mediterranea, da Napoli a Teheran. Si tratta di un progetto editoriale libero e indipendente che, in meno di tre anni, ha pubblicato, con buon successo nel mondo, 6 numeri, più due extra, con articoli e interviste su storia napoletana, lingua, tradizioni, arte, artigianato, musica, teatro, cinema, filosofia, tecnologia, cucina, business e molto altro.
Nel n.7, appena pubblicato, spazio anche per me. Qui di seguito, la traduzione in italiano delle pagine a me dedicate, anche riportate sul sito napulitanamente.com.

Vedi Napoli e poi muori

Angelo Forgione sfata i miti napoletani e svela la realtà

di A. Sujit

Angelo Forgione, giornalista e scrittore, si occupa di cultura, di costumi e di storia di Napoli e del Sud Italia, oltre ad avere cura dell’integrità grammaticale e ortografica della lingua napoletana e a essere famoso anche perché esperto di sport. Nonostante il suo stretto legame con la terra e lo stile di vita napoletani, ha una visione assolutamente obiettiva, e le sue opinioni sono piuttosto significative. Leggendo i suoi saggi, quindi, è facile comprendere la reale situazione in cui si trovano i napoletani.

Per più di 150 anni, l’Italia ha diffuso miti negativi su quello che un tempo era il Regno di Napoli, che comprendeva tutto il Sud Italia. Tuttavia, le opinioni dei turisti smentiscono certe false affermazioni e dimostrano che Napoli è una città sorprendente e piena di bellezze. La capitale dell’Italia meridionale continua a impressionare sia i visitatori stranieri che quelli italiani, nonostante la cattiva propaganda di cui spesso soffre. Questo paradiso, abbracciato dal Vesuvio e dai Campi Flegrei, fu un tempo il più popoloso e vivace dello “Stivale”, almeno dal XIV alla metà del XIX secolo. Oggi si rivela un mondo più che una città.

Chi visita Napoli desidera qualcosa di più di un semplice luogo dove rilassarsi; vuole capire cosa vuol dire essere napoletani, assaggiare la deliziosa cucina, conoscere la storia intrigante e sperimentare la vita quotidiana. Forgione ci spiega che il viaggiatore avventuroso è motivato a scoprire come la tenace comunità napoletana abbia perseverato e continui a farlo sfidando due vulcani attivi che hanno il potenziale per causare conseguenze disastrose.

A causa di terribili miti, alcuni dei quali sono ancora diffusi tra gli italiani che vivono in Italia e nel mondo, la maggior parte delle persone, tra cui pure diversi napoletani, non sono a conoscenza delle maggiori ricchezze storiche della città. In alcuni libri di testo italiani distribuiti all’estero, i napoletani e gli abitanti dell’Italia meridionale sono descritti come gente incline al crimine, proprio come li definì Cesare Lombroso. Si tratta, come sostiene Forgione, di uno stereotipo ingiustificato che nasconde i veri grandi scandali nazionali e che hanno origine proprio in quel territorio con maggiori opportunità e capacità di attrarre ricchezza, cioè il Nord Italia, dagli scandali del vino all’etanolo agli appalti per l’Expo di Milano e per il MoSE di Venezia, dal crac Parmalat alle controversie della Juventus della famiglia Agnelli, fino a tutte le multinazionali del Nord e tutte le banche che hanno rubato molto più di tutti i ladri napoletani messi insieme dal dopoguerra a oggi. Spesso, la pulizia morale è stata fatta dai competenti magistrati napoletani.

La corruzione italiana ha raggiunto il suo picco con le gare d’appalto milanesi per l’Expo di Milano del 2015. Di conseguenza, il governo italiano si è visto costretto a costituire l’Associazione Nazionale Anticorruzione. Raffaele Cantone, magistrato napoletano incaricato di preservare la trasparenza e l’integrità delle procedure governative, fu il primo nominato a guidare tale istituzione. Considerata la grande moralità dei napoletani onesti, che costituiscono la netta maggioranza, e la provenienza dei responsabili delle grandi truffe italiane, risulta errato il presupposto che etichetta i partenopei come truffatori. Napoli fu scelta per ospitare il G7 del 1994 per presentare un’immagine diversa del Paese, della sua bellezza regale e del suo significato storico e della pulizia degli appalti, restituendo lustro a una città fino ad allora trascurata dalle istituzioni nazionali e spazzando via alcune spiacevoli percezioni sulla nazione italiana generate dalla Tangentopoli milanese di inizio anni Novanta. La graduale ripresa dell’immagine della città si arrestò bruscamente un decennio fa, ma momentaneamente, per le vicende dei rifiuti nelle strade, causata da un patto scellerato tra malavita campana, massoneria deviata e imprenditoria del Nord. Forgione invita ad informarci sul ruolo che ricoprirono i fratelli veneti Stefano e Chiara Gravioli e la loro cricca, che come altre, tenevano in scacco Napoli in quel periodo, per comprendere quello scenario.

Napoli, in quanto importante centro culturale d’Italia, è detentrice di numerosi primati internazionali, città d’arte tra le primissime d’Italia, culla della cultura occidentale, crogiuolo di stili artistici e di tesori eccezionali. La città accresce la sua immagine di luogo privilegiato di vacanza affrontando questioni moderne e riuscendo comunque ad attirare l’attenzione internazionale. È una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale, intellettuale e storico, che la rende unica. Le principali risorse economiche di Napoli andarono perdute a seguito dell’Unità d’Italia, che fu di fatto una vera invasione. Preconcetti e timori, alimentati da rappresentazioni come quelle di certe serie televisive, possono essere spazzate via solo dopo aver visitato la città; viene così a scopersi una nuova prospettiva che evidenzia i migliori valori della realtà partenopea. Lontano dai luoghi comuni che associano Napoli esclusivamente a spaghetti pizza e mandolino, Forgione sottolinea nel suo libro Made in Naples che Napoli è uno scrigno di cultura, e avverte che il problema sta nel non riuscire a comunicare al mondo che si tratta di un luogo bellissimo con un’identità distintiva, e che affidarsi all’esperienza diretta e al passaparola è un modo inadeguato per interagire con i viaggiatori.

AF: “In Italia, in Europa, nel mondo, c’è uno scrigno da aprire. Dentro vi è custodita una città romantica quanto Parigi, colorata quanto Barcellona, aristocratica quanto Londra, eterna quanto Roma, accogliente quanto Berlino, colta quanto Vienna, sorprendente quanto Istanbul. E, cosa non dappoco, più buongustaia di tutte”.

Tutti possiamo fare molto per sfatare il mito di Napoli città maledetta. Forgione incoraggia i napoletani a impegnarsi nello scambio culturale con il resto del mondo al fine di abbattere le barriere isolazioniste, che i napoletani di oggi creano perché pensano di bastare a loro stessi. Per Forgione, la strada giusta da seguire è quella di porre fine all’ignoranza sostituendo le menzogne con la verità, acquisire una maggiore consapevolezza. Ma prima di tutto, i napoletani devono essere più uniti e non diffidare gli uni degli altri. Afferma che a molti napoletani manca la capacità di fare rete per un obiettivo comune, perché la città non può contare su risorse finanziarie sufficienti e deve competere con territori più ricchi che possono contare su buona pubblicità e valorizzazione. È un’urgente necessità, stante un rozzo e cronico atteggiamento anti-napoletano e anti-meridionale, spesso latente e talvolta manifesto, ma anche una crescente esaltazione neo-meridionalista di pancia che non produce nulla ma fa solo da freno. Bisogna convertire la menzogna in verità, la presunzione in consapevolezza e il rancore in fierezza.

AF: ”Il divario Nord-Sud si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento, con le politiche dei governi del Regno sabaudo d’Italia che penalizzarono pesantemente il Mezzogiorno. Per decenni si è raccontata un’altra storia, e cioè che l’arretratezza del Sud preesisteva all’unità, ma la verità è che in quel momento storico non vi era un divario significativo in termini di prodotto interno lordo e una reale differenza tra Nord e Sud, tra due economie di pari livello, pur con specificità produttive diverse. Il Sud, infatti, disponeva di importanti porti commerciali ed era più avanzato del Nord per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e il settore estrattivo. Il Nord Italia era all’avanguardia nel settore tessile e beneficiava della vicinanza ai principali mercati continentali. Era semmai tutta l’Italia ad essere arretrata rispetto ai paesi guida del progresso europeo, poiché dipendeva essenzialmente dall’agricoltura.”

La spaccatura fu inizialmente causata dalla moderna industria italiana, che interessò solo una piccola parte del Paese. Ad esso si aggiunse anche il debito pubblico per le guerre per il processo di unificazione del nuovo Stato, che iniziò sommando i debiti di tutti gli Stati preunitari annessi al territorio.

Forgione afferma che la nuova Italia repubblicana è responsabile di non aver colmato il divario, indipendentemente dalla sua origine storica. Nel Dopoguerra, i finanziamenti del Piano Marshall furono impiegati scientificamente per ricostruire le industrie settentrionali e portare gli operai meridionali al Nord, non per portare le fabbriche anche al Sud, e se poi qualcosa si è fatto con la Cassa per il Mezzogiorno è poi risultato effimero, perché la creazione di stabilimenti industriali nel Meridione, senza sviluppare strade e trasporti, ha privato gli stessi della necessaria competitività.

Arretratezza, criminalità e ignoranza facevano parte di tutti i territori italiani preunitari, e al Sud sono cresciuti come accade in tutti i territori più poveri. Perché si continua a raccontare una storia falsa? Per nascondere le colpe dei governi italiani da 160 anni a questa parte.

Forgione sottolinea la necessità di rafforzare l’influenza di Napoli, portando l’esempio della pinacoteca del Museo di Capodimonte, una delle più preziose d’Italia, accostabile per rilevanza e densità di capolavori a quella degli Uffizi a Firenze, di Brera a Milano e della Galleria Borghese a Roma, ma il numero di visitatori non è affatto all’altezza di tanta importanza.

La mostra “Naples à Paris” in corso al Louvre mira a mettere in risalto le risorse culturali della città in tutto il mondo come investimento di immagine a lungo termine. È importante ricordare che Napoli fu fondamentale nella trasmissione della cultura greca alla società romana. Ha avuto influenza anche nell’esercizio della cultura moderna, terreno fertile per artisti e innovatori nei campi industriale, scientifico e tecnologico. Ci sarebbe molto altro da dire sulla storia di questa città così complessa per natura e società, su ciò che è stato fatto e non. Da molti anni Angelo Forgione dedica il suo tempo e i suoi studi all’analisi di questi temi. Il suo ultimo libro si intitola Napoli Svelata, e svela lo “scrigno” attraverso quindici racconti che chiariscono il passato per comprendere il presente della città partenopea e della sua gente.

Cosa ci puoi dire di Napoli Svelata?

AF – “Come nei miei precedenti lavori su Napoli, tutti complementari tra loro, racconto e approfondisco vicende storiche sorprendenti, alcune sconosciute ma tutte importanti per capire Napoli, assai ricca di storie perché possa essere capito con facilità. Napoli, città porosa proprio come il tufo su cui poggia, ha assorbito e poi restituito con linguaggio proprio e idee nuove. Qui, tra i tanti ingegni, sono nate la viticoltura italiana con i suoi vini, la vulcanologia e l’archeologia. Qui sono state stimolate l’igiene ambientale e personale. Qui sono stati sperimentati e affinati i primi vaccini. Qui sono state perfezionate eccellenti maestrie, qualcuna superata, qualcun’altra in via di estinzione e altre ancora, come la sartoria maschile, solidamente apprezzate nel mondo. Qui, tra particolari usanze alimentari, si è diffuso il mangiare e bere ghiacciato. Qui sono germogliati il cinema, la cultura sportiva e persino il dogma dell’Immacolata Concezione. Insomma, racconto 15 grandi storie napoletane da conoscere per conoscere meglio una città tra le più antiche d’Europa, fondamentale – lo ribadisco – nella trasmissione della cultura greca alla società romana e di importanza sempre crescente dal Rinascimento in poi, fino a diventare una delle maggiori capitali d’Europa, la più espressiva, prima di decadere nell’Italia politicamente unita. E alla fine propongo anche una mia ricostruzione circa l’origine ignota del noto detto sulla città “vedi Napoli e poi muori”. Una città da vedere prima di morire, ma anche da capire. Io lavoro per questo.”

Oltre ad essere un appassionato ricercatore della storia e della lingua napoletana, sei anche un tifoso ed esperto di calcio. Dopo 33 anni il Napoli vince nuovamente il campionato italiano. Cosa rappresenta questo per i napoletani?

AF:”I napoletani amano il Napoli in modo viscerale, lo percepiscono come una voce della città, sperando sempre che faccia la voce grossa con le squadre del Nord e i loro tifosi, che sono dappertutto, ma anche con le realtà del capitale d’Italia. Vincere al Sud è difficilissimo, e il Napoli è l’unico club meridionale che può arrivare alla vittoria. I napoletani hanno la percezione che prima o poi il trionfo arriverà. E proprio per i motivi già spiegati di tifo identitario, il trionfo venturo sarà di quelli che doneranno gioia collettiva di popolo ed emozioni condivise.
Certo che il calcio non risolve i problemi di un luogo e le diseguaglianze, ma il calcio è la più coinvolgente delle passioni popolari, e perciò i trionfi del Napoli ritemprano l’umore collettivo, cosa di cui c’è sempre forte bisogno laddove c’è da impegnarsi costantemente per risolvere i quotidiani problemi esistenziali. E poi sono trionfi che significano che c’è un Sud del calcio che può guastare i piani del Nord, e questo è un esempio per tutto il resto della vita sociale d’Italia. Stavolta, lo scudetto, diversamente da quelli degli anni di Maradona, ha dato ulteriore spinta a una città in pieno rilancio culturale e turistico e non ha fatto da traino ma ha rafforzato ancora di più l’esposizione mediatica e l’appeal di Napoli.”

Torna Raccontintour

Sabato 7 ottobre torna RACCONTINTOUR, una condivisione di intenti e di amore per Napoli tra me e Giovanni Ottaiano, accompagnatore turistico che affiancherò in un percorso nel cuore di Neapolis.
Appuntamento in piazza Bellini alle ore 18, e sposeremo i nostri racconti per chi ci darà la gioia di passeggiare con noi lungo la città e attraverso la sua storia.
6 tappe per “ascoltare” la voce di Napoli.

DALLA NEAPOLIS GRECO-ROMANA A QUELLA VICEREALE

1) PIAZZA BELLINI
2) CAPPELLA DEL PONTANO
3) PERCORSO LUNGO VIA DEI TRIBUNALI
4) PIAZZA SAN GAETANO
5) ANTICAGLIA
6) SAN CARMINIELLO AI MANNESI

per info e adesioni, messaggi WhatsApp al 3518708536
(no call)